martedì 10 aprile 2012

Il romanzo postumo di Gina Labriola, 'Sherazade lucana'


“Un libro nato da un paniere di ostriche”. Gina Labriola come Sherazade, nell’e-book postumo, una biografia romanzata, completata con la collaborazione dei figli Alessio, Dario e Valerio, poco prima di spegnersi e disperdere le sue ceneri tra le valli della Provenza.  Il titolo “Sherazade lucana … ed altre storie di scarpe, lune, cuori spinati, sassi, zanzare…” (Index) è stato discusso e scelto con l’autrice, quale giusto riferimento all’Iran e alla Lucania visti attraverso il velo della mitica affabulatrice. Le fotografie, selezionate  con Gina, sono di Dario Caruso. Esse non vogliono illustrare eventi o luoghi, ma essere liberamente evocatrici della sua poetica. Un’autobiografia reinventata, un’opera che, sentendo l’avvicinarsi della fine, la scrittrice aveva desiderato ultimare e pubblicare. Un gioco di specchi ripreso dalla tradizione poetica iraniana, ma anche architettonica, attraverso cui la realtà appare frantumata e riflessa, quasi ad esprimere la complessità, l'imprevedibilità e l'inafferrabilità dell'anima di un paese, in cui tutto appare un miraggio. “Se alla base della civiltà occidentale vi è la logica di Aristotele imperniata sul principio di non contraddizione, per cui ogni cosa è quello che è e non può essere il suo contrario, l'approccio iraniano al contrario non è logico ma poetico, mitico, cangiante, favoloso. Gina è stata sedotta dall'Iran che corrispondeva stranamente alla sua maniera di sentire e di stare nel mondo, al punto di intitolare ‘Alveare di specchi’ la sua raccolta di poesie del 1974 e ‘In uno specchio la fenice’ quella del 1980. Eppure apparentemente nulla di più distante dalla realtà lucana o pugliese che il paese delle mille ed una notte”, spiega il marito Fernando Caruso, nella prefazione al libro. Fu lui a portarla in Persia, dove incontrò Farah Di-ba, regina, moglie dello Sciàh Reza Pahlevì. Nata a Chiaromonte nel 1931, Gina Labriola ha vissuto la maggior parte della sua vita lontano dalla propria terra, per questo si considerava esiliata: “Per uno strano scherzo della donna che buttò l’acqua con cui l’avevano lavata appena nata fuori dal portone”. Gina era fatalista. Un’esiliata stanziale, visto che ovunque, in ogni parte del mondo, ha sempre trovato analogie con la sua terra, per visi, sguardi, espressioni, usanze, costumi e persino per  narrazioni orali. Una prosa piana e scorrevole racconta, tra giochi metaletterari, personaggi, storie e favole, a Chiaromonte come a Theran, a Marsiglia, in Belgio, a Parigi. “Ma è poi veramente un libro o è la metamorfosi di un’ostrica che viaggiava in treno?”, si domanda nel prologo. “Vivevo a Parigi, ma andavo a lavorare in Bretagna. Ero pendolare,  abbonata alla SNCF (Société Nationale des Chemins de fer Français) , - racconta l’autrice -  incontravo spesso donne che venivano da Cancale, la cittadina dove si trovano le migliori ostriche del mondo”. Scritto in viaggio, il romanzo è un lungo racconto rivolto a Max, un uomo incontrato quotidianamente in treno, che inserendosi nell’intreccio dona un carattere arcano alla narrazione: “Era sempre carico di libri e trafficava con una cuffia e con un cestino che pareva quello della merenda, il cui contenuto misterioso indovinai più tardi. Smilzo ed elegante, non faceva sfoggio del suo fascino; aveva una voce suadente e mani lunghe e sottili. Non aveva età. Né bello né brutto. Spesso era ironico, ma con garbo. Di sè raccontava poco, ma prometteva. Ebbe inizio una lunga storia. Viaggio dopo viaggio, rispettando o no la cronologia, gli raccontai la mia vita. Vera? Non lo so più neanche io”. Poetessa e affabulatrice, attraverso il filtro della sua arte tutto diventa mito. Tutto si trasfigura e si perde nel tempo più remoto, col terrore che le immagini diventino illusioni.
“Capace di intuire il significato misterioso e mitico della terra lucana da cui trarrà la dolorosa sensibilità, la malinconia e la fuga nell'immaginario, ma anche scatti di allegria e di umorismo” – racconta Fernando Caruso - Gina Labriola  tesse e inventa affinità sotterranee tra il mondo magico contadino svelato da Ernesto de Martino e  Carlo Levi e la grande tradizione poetica della millenaria civiltà persiana: “Cantastorie ambulante, trasportavo dall’Est all’Ovest, e dall’Ovest all’Est, frammenti di vita quotidiana che, attraversando monti e mari, incantavano sempre come esotiche avventure. Ero una Scerazade a double face, d’andata e ritorno. – riferisce di sé, nel capitolo ‘Mille notti meno una’, Gina - Imbrogliavo, da una parte, i lettori italiani avidi di pettegolezzi regali, dall’altra incantavo, almeno finché mi fu concesso, marito, cognate, cugine e colleghe mogli, raccontando l’Italia,il Quarantotto, il Sessantotto, Garibaldi ed Enrico Mattei, il Papa e il Colosseo”.
Solo di fronte al “femminismo poetico” di Elahè Firouzadèh, protagonista del tredicesimo racconto, la scrittrice perde la funzione di narratrice, osservandola mentre dipingeva, preparava il tè o discorreva con gli amici: “Vedi, mi diceva, le donne possono vincere. Devono avere coraggio, più di quanto è necessario agli uomini, ma alla fine, possono farcela. Come Scerazade, come Golandàn” […] “E’ una storia che tutte le bambine dovrebbero conoscere, diceva Elahè. Golandàn era la schiava turca di Bahràm, un re presuntuoso come sono spesso i re e anche qualche volta i comuni mortali”. “E’ solo una questione di esercizio e di abitudine”, affermava, sfidando il sovrano, rifiutandosi di adularlo per la sua abilità di cacciatore, che la lasciava indifferente. Fu condannata a morte, ma salvata e nascosta da un cortigiano, in un suo castello, nel quale Golandàn si dedicò ad un esercizio quanto meno insolito e bizzarro: portava un toro sulle spalle, prima piccolino, appena nato, poi sempre più grosso, su e giù per le scale. Poi, dopo qualche tempo, il cortigiano confessa al re di aver salvato la turca indisponente e lo fa assistere allo straordinario esercizio col toro sulle spalle su e giù per le scale. Il re riconosce il torto, chiede scusa e si riprende la turca, vinto dalla costanza di una ragazza”.
Forse, Elahè altro non è che l’alter ego di Payandèh Shahandèh, docente di Belle Arti all’Università di Teheran che, nella prefazione alla raccolta ‘Poesia su seta’ (Edizioni Racioppi), intitolata “Dall’Iran a Parigi su ali di seta”, ha scritto: “Il mio sodalizio con Gina Labriola cominciò più di vent’anni fa, in Iran, quando lei collaborava all’Istituto Italiano di Cultura di Teheran, e io insegnavo Belle Arti all’Università. […] In Iran, oltre alla ben nota tradizione delle miniature, che illustrano testi poetici, come quelli di Omar Khayàm, esiste un’altra interessante forma di espressione artistica: quella dei khalàm-khàr (lavoro con l’inchiostro). Sono tele dipinte, che illustrano favole tratte dai poemi di Nezamì, o di Ferdowsi; talvolta, invece fanno rivivere leggende popolari; un tempo servivano ai ghessegù, ai cantastorie, che li usavano per spiegare le loro narrazioni nelle piazze o nelle khavè-khanè (case del caffè), dove ci si poteva riunire per ascoltare storie. Gina in Iran cercava e comprava tele dipinte, ma non per una fredda mania di collezionista: traduceva le storie che vi erano illustrate, e se ne serviva per le sue narrazioni. […] Anche lei ha seguito per anni corsi di pittura su seta […] Non per seguire la moda, del resto superata, della poesia visiva o il grafismo, ma per rendere palpabili, concreti, i suoi raffinatissimi versi. Come nei kimono giapponesi, o nei sari indiani, vuole che i colori intrecciati alle parole possano muoversi, avvolgere, parlare, ricordare”.
Angela Milella

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